C'è posta per noi

C'è posta per noi

Non si spegne l’onda d’urto innescata dall’imposta sui cd. “extraprofitti”, introdotta con il decreto legge dello scorso luglio e la cui conversione avanza in Parlamento con difficoltà simili alle forze di liberazione ucraine.

L’ultimo campo minato (in ordine di tempo) è quello della Banca centrale europea, interpellata tardivamente da governo italiano, come previsto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 127, § 4 e 282, § 5)  e da una decisione conseguente.

Il parere della banca centrale non è vincolante, ma è in ogni caso richiesto ogni qualvolta le misure nazionali (come nel caso del decreto) possano incidere sulla stabilità finanziaria degli istituti di credito sottoposti a vigilanza o possano sovrapporsi ai suoi compiti. Si tratta di una previsione assolutamente ragionevole, poiché permette all'Istituto di Francoforte di attivarsi per tempo nel segnalare misure che potrebbero compromettere la sua funzione: ovviamente spetterà poi ad altri organi, la Commissione e la Corte di giustizia, di intervenire qualora la misura introdotta non sia compatibile con il Trattato o con la normativa derivata.

La Banca centrale ha espresso il suo parere, ed è stato di segno negativo, con una linea di argomentazioni quasi sovrapponibile a quella di organizzazioni di categoria, che sono deputate istituzionalmente alla difesa degli istituti di credito.

Per i banchieri di Francoforte l’imposta sugli extraprofitti è mal congegnata ed in conflitto con la mission dell'istituto sotto diversi profili.

Innanzitutto perché la metrica utilizzata per il calcolo del tributo non è idonea a fotografare l’effettiva capacità contributiva (direbbero i tributaristi italiani) delle banche. Il delta sui tassi di interesse non è reddito. Inoltre, la retroattività della misura può aggiungere incertezza al sistema e ostacoli all'operatività delle banche (punti 3.3. e 3.4). Ancora, il versamento del tributo potrebbe determinare un serio pregiudizio alla solvibilità dell’istituto con una contrazione del credito (punto 3.4).

Da non trascurare sarebbero anche i rischi di doppia imposizione, di frammentazione del sistema bancario europeo e di asimmetria nella distribuzione dell'onere del prelievo poichè ad essere più vulnerate sarebbero le banche di minori dimensioni (la cui redditività è ancorata agli interessi riscossi) e non le grandi (che invece essenzialmente trovano ragioni di profitto nelle commissioni, che sono escluse dalla base imponibile dell’imposta sugli extraprofitti) (punto 3.5).

Insomma, un parere negativo, come non ha mancato di evidenziare la stampa domestica, sebbene in attesa di ulteriori chiarimenti che potrebbero magari far tornare Lagarde sui propri passi (punto 5.4).

Ma è davvero così ?

Proprio qui, di recente, si sono sollevate critiche a questa imposta sui cd. “extraprofitti”: ma con un'importante precisazione. Dal punto di vista giuridico non è sbagliata la scelta di tassare gli extraprofitti, a condizione che questa volontà sia coerente, sistematica e trasparente.

Spetta alla politica poi decidere se questa forma di prelievo sia accettabile dal punto di vista sociale, fedeli all’antico principio platonico secondo cui quella decide “cosa” e le altre scienze “come”.

La critica della Banca centrale sembra scivolare su questo secondo piano, giocando su un campo che forse non è del tutto suo, come implicitamente ammette in due passaggi del parere (punti 4.4 e 5.1).

Vero che l’Istituto si occupa della vigilanza e stabilità del sistema bancario, e che in questo senso estende la sua ingerenza su norme nazionali che potrebbero pregiudicare l'Eurosistema, come ad esempio quelle che ipotecano l'autonomia decisionale delle banche centrali.

Ma questo vale anche per le norme tributarie ? Nella fiscalità diretta, come è noto, i margini di intervento dell’intera Unione europea sono particolarmente limitati: non è un settore oggetto di armonizzazione profonda, come ad esempio l’IVA.

Questo non vuol dire che non ci possano essere interventi: numerose sono le direttive adottate in materia, e copiosa ormai la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che fa uso della libertà fondamentali sancite nel Trattato per censurare le norme domestiche che con esse confliggono.

Ma può una norma tributaria incidere sulla stabilità bancaria di un istituto quando il prelievo va a colpire una componente del reddito effettiva (dunque non una ricchezza presunta) di quest’ultimo? La risposta affermativa è possibile, ma solamente quanto la tassazione per sua natura valica i confini della materia tributaria, perde la sua natura, e si trasforma in una misura ablativa patrimoniale: quanto l'imposta diventa confiscatoria o espropriativa di attività bancarie. Ecco che allora un pericolo evidente ci può essere anche per le banche, e legittimo diventerebbe l’intervento dell'Istituto di Francoforte.

Ragionare in senso contrario, subordinare al placet della BCE ogni forma di prelievo sulle banche, determinerebbe una asimmetria nell'esercizio del potere di imposizione che neppure nel Trattato trova fondamento, e che dovrebbe essere respinta come discriminatoria nei confronti di tutti gli altri. Significherebbe dare alla Banca centrale un potere (soft, va riconosciuto) di intercessio che non è attribuito a nessun altro.

Di questo ne sembra implicitamente consapevole la stessa Istituzione europea quando, nell’esprimere le sue riserve, richiama il fatto che il delta sugli interessi (attivi e passivi) non è necessariamente sintomatico di una maggiore capacità contributiva, ma può derivare da disallineamenti temporanei nelle politiche di erogazione del credito (punto 3.3), e che il sistema “trickle-down” che muove dalla banca centrale che decide di tassi e scende sino al tassi di interesse sul mutuo erogato, ad esempio, per l’acquisto di una casa non è perfetto. Più precisamente, è impreciso nel senso che il mercato bancario non reagisce (subito) in maniera coerente alle politiche della banca centrale. O non lo fa con la stessa velocità del passato.

Quella che emerge dal parere, così, è una realtà diversa.

La stampa generalista giorni fa ha riportato alcune affermazioni della presidente dell'Istituto di Francoforte al margine di dell’incontro di Jackson Hole.

In quell’occasione Christine Lagarde (che firma il parere sulla tassa sugli extraprofitti) ha preconizzato (letteralmente) l’arrivo di una “new age” in cui “past regularities may no longer be a good guide for how the economy works

Come un’implicita ammissione di una progressiva erosione del ruolo della Banche centrali, o della necessità di pensare a nuove strategie.

Se questo è lo scenario, diventa allora necessario insistere sui fondamentali, se non altro all'interno dell’Unione e dal punto di vista fiscale e giuridico.

I pilastri europei ancora oggi prevedono una potestà impositiva degli stati, nel rispetto del Trattato e delle direttive (eventualmente) applicabili. Di conseguenza, le scelte tributarie dovrebbero rimanere estranee a valutazioni tecniche della banca centrale, ad eccezione di ipotesi in cui il prelievo, sproporzionato ed esorbitante, non si tramuti in una ablazione di attivi bancari: con ciò pregiudicando in modo immediato e diretto la stabilità della banca stessa. Evidentemente questo non è il caso del tributo (buono o cattivo che sia) in questione.

Queste conclusioni vengono ulteriormente confermate dal fatto che, come la banca ammette, l'impatto dell’imposta sugli extraprofitti sarà tanto maggiore sulle banche cd. “ minori e locali” (punto 5.1) al di fuori del suo perimetro di sorveglianza diretta e minore per quelle sottoposte a controllo diretto: ciò in ragione del fatto che la redditività delle seconde è ancorata più alle commissioni che alle altre componenti. Se questo è vero, dal punto di vista della stabilità (e non certo dell’equità) la cd. “tassa” sui cd. “extraprofitti” dovrebbe far dormire sonni più tranquilli a Francoforte.

Così, dal punto di vista tributario, le parole di Christine Lagarde in Wyoming assumono un significato profondamente diverso. Le regolarità (regularities) che lei invocava erano forse quelle secondo cui ogni istituzione e ogni ufficio interviene, dal punto di vista tecnico, solamente nell’area di sua competenza: senza inutili invasioni di campo che giocoforza, assumono una valenza politica.

Che l’imposta italiana sia mal congegnata, sotto diversi punti di vista, oramai è certo, così come febbrile è l'attività parlamentare volta a una sua correzione in sede di conversione del decreto legge.

L’intervento della Banca centrale in quei toni tuttavia non aiuta il dibattito, e contribuisce a quella confusione temuta dai suoi stessi organi direttivi, che finiscono per essere l’origine del loro stesso male.